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Plutarco di Cheronea
Euripide
Erodoto

 


· Plutarco di Cheronea

Nell'ambito di questa tendenza filo-orientale una posizione importante assume Plutarco di Cheronea (46-125 circa d.C.), autore delle famose Vite parallele, in cui mette a confronto i "grandi" della civiltà greca con quelli della civiltà romana (fa eccezione il persiano Artaserse) mostrando gli eroi come “modelli” e ponendoli in modo speculare: ciascun eroe infatti, si riflette nel suo “parallelo”, cui risulta legato per similitudine o per antitesi. In quest’opera Plutarco fa un uso significativo della sinkrisis (paragone): infatti è proprio l’intento, politico e culturale, di avvicinare i due popoli, favorendo la collaborazione fondata sulla stima e sul rispetto.

Caratteristica della posizione di Plutarco è il tentativo di conciliare filosofia e religione, o meglio filosofie diverse e religioni diverse, considerate come espressioni particolari di un unico logos divino che è alla base delle diverse dottrine ed in esse si esprime in maniera più o meno chiara.

Accanto a questo dualismo è presente però in Plutarco anche un'esigenza umanistica, che si manifesta nel suo tentativo di colmare la separazione tra Dio e il mondo con una serie di "demoni", o intelligenze divine, che rivelano la loro presenza in tutti gli aspetti della realtà, dalle armonie celesti ai moti più intimi dell'anima dell'uomo. Questo sarebbe secondo Plutarco il grande insegnamento delle dottrine orientali ed in particolare dei sapienti egiziani: nel De Iside et Osiride c'è appunto questo tentativo di recuperare l'unità del tutto, colmando le distanze tra la divinità e gli uomini ed aprendo la via ad una dottrina che non è né filosofica né religiosa perché vuole essere appunto l'una e l'altra cosa insieme. Questa composizione fa parte di quella serie di scritti dei Moralia dedicati alla religione o al problema teologico e che risultano particolarmente importanti dal punto di vista antropologico-culturale per la minuziosità con cui ci descrivono riti misterici e oracoli, aprendo una finestra sulla complessa spiritualità dal sapore orientale che caratterizzava quel periodo.


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· Euripide Medea

Vv222-224: “ma è bene che uno straniero in particolare si adatti alla città”
vv536-541: “innanzi tutto, abiti la terra greca anziché in un paese barbaro e conosci la giustizia e sai servirti delle leggi senza ricorrere alla forza; poi tutti i greci hanno saputo che sei sapiente e ne hai ricevuto fama: se avessi abitato una terra agli estremi confini del mondo non si sarebbe parlato di te.”


Trama
Medea e Giasone, dopo la conquista del vello d’oro, risiedono con i figli a Corinto. Giasone, però, sta per ripudiare la moglie per sposare Glauce, la figlia di Creonte, re della città. Medea, temuta per le sue arti magiche, viene espulsa per ordine del re, ma riesce a rimandare di un giorno la partenza, in modo da poter attuare la propria vendetta. In un denso scontro verbale, in cui Euripide utilizza la più raffinata tecnica retorica, marito e moglie mostrano la totale inconciliabilità delle rispettive motivazioni: da un lato la donna sottolinea la propria totale dedizione e il patto d’amore tradito, dall’altro l’eroe contrappone la logica politica. Medea, dopo essersi garantita l’ospitalità di Egeo, re d’Atene, mette in atto il suo tragico proposito: finge di rappacificarsi con Giasone e fa portare dai figli, come doni alla sposa, una corona e un peplo. L’arrivo di un messo informa il pubblico che da quegli oggetti si sono sprigionate fiamme che hanno ucciso fra atroci dolori sia Glauce sia il padre Creonte. La vendetta, per essere totale, richiede però anche l’uccisione dei figli nati dall’unione con Giasone; questi si precipita furioso contro Medea, ma non può che apprendere di quest’ultimo tremendo delitto e vedere la maga salire verso il cielo sul carro del Sole portando con sé i corpi delle proprie creature, negandone all’eroe anche la sepoltura.

Franz Stuck - MedeaMedea non è una figura indiscutibilmente negativa. Essa è la personificazione dello scontro tra la cultura Greca e le diverse e molteplici culture “barbare” secondo una definizione piuttosto semplicistica e riduttiva utilizzata dagli stessi greci. Medea è una donna che si trova all’improvviso in conflitto con un mondo, una cultura, usi e costumi diversi che non capisce e che non può accettare. Questa donna non riesce a comprendere le consuetudini greche riguardo ai doveri coniugali e alla concezione delle donne. Si aspetterebbe di ricevere eterna riconoscenza da Giasone per averlo aiutato nelle sue imprese alla conquista del vello d’oro e invece ne ricava di essere abbandonata dall’uomo che ama dopo averlo seguito sola in terra straniera. Giasone a sua volta è nell’impossibilità di comprendere lo sdegno di Medea perché per una donna greca sarebbe probabilmente stato impensabile ribellarsi al marito e quindi non accettare le sue decisioni in ambito coniugale. Per la reazione di violenta vendetta che ha davanti alla sventura di essere abbandonata dal marito per un’altra donna, Medea non merita giustificazioni né potrebbe riceverne da qualsiasi altra cultura o civiltà. Tuttavia la tragedia non nasce da una malvagità unilaterale ma da una reciproca e forse inevitabile, in un mondo così pieno di sé come quello greco, incomprensione tra due diverse scale di valori.

Analisi psicologica di Giasone

Sembrerebbe il classico eroe mitico, invece in Giasone si specchia la concezione greca dell’uomo, ma soprattutto del matrimonio e dei doveri verso la moglie. La psicologia di Giasone è quella di un perfetto uomo greco che fa il suo interesse politico ed economico, lasciando tranquillamente in secondo piano non tanto la famiglia, quanto la prima moglie.
Giasone rinfaccia a Medea la superiorità della grecità sulla barbarie. Ma così facendo egli non fa che esprimere il senso comune del pubblico: effettivamente nessun ateniese avrebbe dubitato dell’inciviltà e dell’inferiorità naturale dei barbari. L’aspetto più inquietante è forse proprio questo: Giasone esprime la mentalità del pubblico, è un uomo normale, è greco, familiare, ma ha torto ed esce sconfitto dalla contesa con Medea. Al contrario Medea è donna, barbara, minacciosa, irrazionale ed oscura, rappresenta tutto ciò che non è ben accetto: ma il buon diritto è dalla sua parte ed esce vincitrice. Euripide, quindi, mette fortemente in discussione i fondamenti stessi della vita sociale ateniese.


Analisi psicologica di Medea

Medea non è greca e ha ben altre concezioni del matrimonio e della vita coniugale, rispetto a Giasone. Lei non è disposta a tollerare di essere solo una concubina ai voleri di Giasone, e si sente tradita, poiché i favori che gli ha reso nella conquista del vello d’oro non le sembrano degni di tale sgarbo. Medea ha abbandonato i suoi parenti e la sua terra per seguire Giasone, e adesso il suo mondo crolla, ritrovandosi sola, in terra straniera, relegata ad una funzione sociale che non le va per niente bene e che non riesce ad accettare e a capire. Probabilmente una qualsiasi altra donna greca avrebbe accettato tranquillamente il fatto di diventare una concubina del marito, ma in Medea non ci sono i presupposti culturali per tale sottomissione, e la sua reazione è al contrario forte e violenta, tale da provocare un’altra serie d’incomprensioni da parte del marito che non afferra l’idea di una così dura ribellione di una donna al volere maschile.
Secondo Giasone Medea ha in realtà ottenuto più di quanto abbia dato: pur essendo barbara, ora abita in Grecia dove ha imparato a conoscere la civiltà e le leggi; vivendo in mezzo alla civiltà anziché ai confini del mondo ha conquistato la fama per la propria sapienza. Ancora una volta il discorso fa leva sul senso comune di una polis tanto cosmopolita quanto xenofoba: il disprezzo per il barbaro fa parte, dopo le guerre persiane, del bagaglio ideologico di ogni ateniese, le leggi erano diventate così restrittive che il figlio di un ateniese e di una donna straniera non aveva accesso alla cittadinanza. In questo contesto il solo fatto di aver dato a Medea la possibilità di vivere in Grecia doveva apparire come un merito non da poco per il pubblico. Ella non può che essere riconoscente.

Condizione di esule

La condizione di esule a cui Medea si appella è una condizione di debolezza, di dipendenza, ma viene usata come strumento per conquistarsi il consenso del coro. È anche un infinito rimandare altrove: Medea è esule a Corinto dalla Colchide, ma da Corinto viene esiliata e spera di trovare un’altra terra che la ospiti. L’esilio sembra essere una sua realtà permanente, una sorta di natura profonda del personaggio. La condizione di esule, inoltre, si somma e si confonde con quella di straniera, continuamente evocata, prima come un semplice dato di fatto, poi con un crescendo di riferimenti agli aspetti sinistri, “barbarici”, quali il culto di Ecate e l’abilità nel preparare veleni.

Essa quindi pone l’accento sulla sua condizione di straniera, ma la presenta in maniera a lei più favorevole: Medea sa come integrarsi con il corpo sociale della città, rendendosi ben accetta con un atteggiamento allo stesso tempo di riserbo e di rispetto. Medea non è una sconsiderata, una barbara priva di freni che sfoga la propria indole estrema, ma una donna capace di argomentazioni composte e sottili, di comportamenti dettati dalle regole della buona convivenza e dall’adattamento alle circostanze.

L’importanza di avere una patria

Mentre Giasone parla della fama importante per la vita umana, e dell’importanza dell’essere greco, Medea teme di non avere più patria, e a quel tempo era molto importante avere una patria, perché si viveva in un mondo profondamente ostile all’uomo, dove la primaria fonte di difesa dalla natura ma anche dagli altri uomini era la formazione di una società autosufficiente in cui tutti erano organizzati e avevano come unico scopo la tutela reciproca. Colui che in un mondo come questo era escluso dalla polis era un senza-patria. Essere senza patria doveva essere davvero duro a quel tempo con una donna sola con figli, forse addirittura impensabile. Medea ha ragione quando teme di rimanere sola in terra straniera, con l’ostilità di suo marito da un lato e quella della famiglia che ha abbandonato dall’altro: una donna sola non avrebbe mai potuto avere un posto nella società greca.


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· Erodoto

“Questa è l’esposizione della ricerca di Erodoto di Alicarnasso, affinchè né i fatti dagli uomini vengano ignorati con il (passare del) tempo, né le opere grandiose e meravigilose, quelle compiute dai greci, quelle compiute dagli stranieri, diventino senza gloria, e tra l’altro anche per quale motivo combatterono tra di loro”.
Nato nel 448 a. C. ad Alicarnasso, città della costa sud-orientale dell’Asia Minore, fra il 490 e il 484 a.C. da padre asiatico e madre greca, visse in una città dorica, ma permeabile ai messaggi culturali provenienti dalla vicina Ionia. Crebbe quindi con una cultura molto legata alla tradizione nazionale ma molto aperta allo spirito innovatore ionico e ulteriormente ricca dell’immissione di elementi asiatici, date le origini della sua famiglia. Le vicende politiche di Alicarnasso, sede, dopo le guerre persiane di tentativi insurrezionali, costrinsero Erodoto ad andare in esilio a Samo. Partecipò alla cacciata dei Ligdami in seguito alla quale, quando finalmente nel 545 a.C. la città entrò a far parte della Lega delio-attica(come tributaria di Atene), intraprese molti viaggi (Magna Grecia, Asia, Egitto, Fenicia, Mesopotamia, Scizia, Mar Nero...). Soggiornò varie volte ad Atene dove conobbe Pericle e Sofocle, con i quali ebbe vari scambi culturali. Luogo e data della morte sono incerti, ma secondo l’ipotesi più accreditata essa sarebbe avvenuta ad Atene od a Turi intorno al 425 a. C.
Quei viaggi erano l’unico modo per apprendere in modo diretto notizie su popoli stranieri (usi, costumi, tradizioni, leggi, religione) e oltre a fornire ad Erodoto un immenso bagaglio culturale, divennero la base del suo metodo storiografico.

Le storie
Il progetto di Erodoto poteva essere inizialmente di tipo annalistico ma con interesse prevalentemente storico, anziché geografico, incentrato sulla storia del popolo persiano, che allora aveva realizzato il massimo impero. Inizialmente l’opera era costituita da due parti equilibrate ma diverse per sostanza e forma: la conquista persiana del mondo asiatico (carattere etnografico) e le guerre persiane. L’ interesse di Erodoto andava sicuramente al polo etnografico ma si spostò poi a quello delle guerre con i Greci, in sintonia con gli interessi del pubblico greco e, forse, anche per interesse proprio.
La sua storia non era quindi più una storia della Persia, bensì della lotta tra Persia e Grecia e per questo Erodoto riadattò i suoi Logoi etnografici, mantenendone però inalterate alcune parti. Nell’ opera sono presenti descrizioni geografiche ed etnografiche ed anche favole mitologiche, che però non occupano più di 1/7 del testo. Va notato comunque che la storia di Erodoto riguarda non solo fatti contemporanei, ma anche il passato, prossimo e remoto.
Lontananza temporale e spaziale fanno emergere la curiosità etnografica e geografica di Erodoto, il suo gusto per la mitologia, la disputa genealogica. La struttura della narrazione erodotea congiunge quindi sviluppo cronologico, digressione non storica e “flash back”, senza perdere mai di vista l’essenzialità della dimensione temporale e di conseguenza storica.
Lo stesso Tucidide non potrà più rinunciare ad excursus antropologici e storico economici sul passato remoto ed ad indagini di psicologia collettiva, a dimostrazione di certe affinità che pur rimangono con Erodoto.

Fonti dell’opera
Erodoto condusse numerosi viaggi attraverso l’Oriente per cercare di conoscere i luoghi dei quali si occupò nella sua opera, ma viaggiando egli fu sempre un semplice turista, non un vero e proprio ricercatore di fonti. Avventurandosi in questo modo attraverso l’Oriente egli fu però ostacolato moltissimo dal fatto che pochi in questi luoghi conoscessero la lingua greca, dovette dunque avere perlomeno un’infarinatura delle lingue straniere più usate in Oriente: l’egizio, il persiano e, soprattutto, l’aramaico. Nel visitare i monumenti egli dipese innanzitutto da guide che parlavano il greco oppure era accompagnato da interpreti occasionali, a questo possiamo attribuire gli errori presenti nell’opera di Erodoto dato che egli non aveva la possibilità di controllare l’esattezza della versione che gli veniva fornita.
Nella maggior parte dei casi, inoltre, egli entrò a contatto con facchini, carrettieri e servi, personaggi che non conoscevano certamente il greco e con i quali infatti comunicava utilizzando quel poco che conosceva elle loro lingue e spiegandosi per lo più con il linguaggio gestuale cadendo dunque in colossali equivoci(ad esempio per quanto riguarda l’ippopotamo che egli descrive come un animale della grandezza di un bue dai piedi caprini e criniera e coda di cavallo).
La maggior parte delle volte però egli riferisce ciò che questi personaggi affermano, ma si occupa di mettere in guardia il lettore nel caso in cui non abbia potuto verificare di persona la verità di tali affermazioni, cosa che testimonia il fatto che egli si preoccupasse di redigere un’opera che corrispondesse a realtà
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